Piccola rassegna per riflettere sulle responsabilità della crisi
Piccola rassegna per riflettere sulle responsabilità della crisi
Vi proponiamo una piccola rassegna di contributi, secondo noi necessari per riflettere sulla crisi che stiamo vivendo: ogni settimana cerchiamo di rintracciare, all’interno del caos informazionale che ci sommerge, un filo rosso per permetterci di capire quella stessa crisi.
Le parole chiave di questa settimana sono: responsabilità, libertà, controllo e sorveglianza.
Questa settimana vogliamo infatti cercare di mettere in discussione alcuni miti che circolano a proposito del virus: in particolare quelli che riguardano le colpe, l’uscita dalla crisi e le soluzioni che si vogliono prendere.
Questa riflessione però non va interpretata in maniera moralista, come se ci fosse una lezione da imparare o un’opportunità filosofica da non lasciarsi scappare. Questa situazione deve essere, secondo noi, occasione di – nel senso di possibilità, di circostanza, di momento adatto per – riflettere su come siamo arrivati fin qui.
Ci sono infatti una serie di condizioni – specificatamente culturali, politiche, sociali – che si manifestano intorno al dilagare del virus. E queste condizioni – o forse contraddizioni – stanno venendo fuori.
Non che tutto questo sia qualcosa di positivo, non fraintendiamoci. In quello che sta succedendo, in questa crisi, non c’è niente di positivo. Si sta rendendo però visibile qualcosa che prima non riuscivamo a vedere. Qualcosa che non riuscivamo più a vedere. Ed è quanto mai necessario cercare di anticipare le conseguenze che verranno.
Nota bene: la piccola rassegna che segue è assolutamente arbitraria. Non ci sono legami di necessità tra gli articoli che abbiamo scelto, e i salti tra uno e l’altro potranno apparire lunghi, brevi, azzeccati, banali, inventati o immotivati. Autrici e autori degli interventi citati non hanno preso parte del processo di scrittura, e potrebbero essere completamente in disaccordo con quello che scriviamo. Vi chiediamo la fiducia di seguirci in questo percorso.
1. Due mondi
Ci sono alcuni concetti che ci accompagnano sin dalla prima rassegna. Il primo è quello di produzione, sempre accompagnato dalla sua messa in discussione. Abbiamo infatti sostenuto che la crisi del Coronavirus ci permette di ripensare il concetto di produzione, che ci porta in qualche maniera a mettere in dubbio gli assiomi della globalizzazione a partire dal suo fallimento.
Uno dei temi trasversali del nostro lavoro di riflessione è proprio quello della ripartenza del sistema produttivo: questa settimana proviamo a farci una domanda in più. Chiediamoci che cosa significa garantire la produzione dei beni essenziali.
Che cos’è essenziale? Che cosa significa garantire la produzione di beni di prima necessità? Quando ci ripetiamo che il mondo produttivo deve ripartire, stiamo mettendo insieme tra loro operazioni di matrice estremamente diversa. Stiamo mettendo insieme la sicurezza di non perdere il proprio posto di lavoro con la sicurezza di avere supermercati riforniti ogni giorno.
La domanda che ci poniamo, semplificando con l’accetta, è: perché in questo momento l’obiettivo è quello di far ripartire il sistema produttivo, e non quello di garantire un benessere condiviso? Forse perché, come diceva qualcuno, è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo. Forse perché l’unica organizzazione possibile è quella di una realtà alla quale ci eravamo abituate e abituati senza porci troppe domande.
Proviamo invece a immaginare nuovi significati per gli imperativi della produzione o dell’economia. Che tipo di organizzazione ci auspichiamo per quello che verrà dopo la crisi? A che cosa dovrebbe servire quel complesso sistema di interessi, mezzi di produzione, beni materiali e filiere di distribuzione? Forse, di fronte a momenti di crisi come quello che stiamo vivendo l’imperativo non dovrebbe essere quello di far ripartire una macchina, ma quella di garantire al maggior numero di persone possibile i beni di cui hanno bisogno. È un’inversione prospettica che permette di ammettere la necessità di una garanzia. La garanzia di un benessere minimo condiviso e garantito (forse attraverso strumenti nuovi, come l’UBI) piuttosto che una crescita piramidale, produttrice di disuguaglianze.
Perché a lato di un mondo che non si ferma, c’è un mondo che si ferma. Stiamo parlando di un mondo, quello della cultura, che è stato il primo a fermarsi. E, come recita il mantra, sarà l’ultimo a ripartire, a fronte di un mondo che non ha saputo fermarsi e non riesce a fermarsi. Che si assume delle responsabilità, ma che faticherà molto a ripartire.
Condividiamo in questo senso l’Appello di Arci, la richiesta di un tavolo per la cultura. Stiamo parlando di decine di migliaia di posti di lavoro che esulano dal sistema produttivo, ma che rischiano di restituire un paese in ginocchio.
Siamo di fronte alla necessità di inventare il mondo che verrà. Di prevedere le difficoltà che i centri e gli operatori culturali dovranno affrontare per far ripartire la loro vita, la loro attività. Beh, direte voi. Ovviamente da parte vostra. che siete operatori culturali, è naturale questo tipo di richieste. Siamo autoreferenziali? Sicuramente. Ma il fatto di essere posizionati non rende meno urgenti le nostre richieste. Il nostro invito a riflettere è assolutamente situato, ma non per questo meno legittimo.
Siamo d’accordo: l’economia deve rimanere viva e ripartire. Questo però non significa tornare al mondo di prima: significa tenere in vita una comunità di persone, far crescere il benessere collettivo. Non lasciare indietro nessuno. Non lasciare morire nessuno.
Si tratta di un’operazione non facile, trasformare la distopia in utopia.
2. Delle responsabilità politiche
È per questo che, secondo noi, la scelta di non fermare la produzione di fronte a una crisi sanitaria di portata globale è un atto criminale. Significa dimostrare una priorità ben precisa. Una scala di valori ben definita. Significa comunicare al mondo intero che la stabilità dei mercati è più importante del benessere delle persone. Che “economia” allora, non è il sistema di scambi e distribuzione di beni in cambio di lavoro che garantisce il progresso della società. Si tratta unicamente di un significante vuoto, usato per mantenere costante una diseguale distribuzione di potere.
Roberto Saviano ha pubblicato negli scorsi giorni un articolo su Le Monde, tradotto e pubblicato in Italia da Repubblica, in cui mette in evidenza le criticità di una delle regioni italiane storicamente ritenute più forti, efficienti e ricche, ma nonostante tutto “quella meno pronta a fronteggiare la pandemia portando avanti scelte di cui presto i suoi dirigenti saranno chiamati a rispondere.” Saviano parte con una premessa: “non c’è un sistema sanitario al mondo che si è dimostrato in grado di fronteggiare con prontezza l’emergenza Coronavirus, ad eccezione, forse, per i dati che si conoscono oggi, della Corea del Sud.” E continua: “Per quanto possa apparire paradossale, il punto debole della Lombardia è rappresentato dalla sua dinamicità economica e dal volume di scambi e relazioni con l’estero e, in particolare, con la Cina.”
La realtà delle Piccole e Medie Imprese che alimentano l’eccellente macchina produttiva lombarda è la stessa che, al momento in cui negli ospedali si è dovuto iniziare a scegliere “tra chi intubare e chi lasciar morire”, avrebbe dovuto ricevere una battuta d’arresto di fronte ad un’altra scelta: “chiudere le produzioni, con il rischio di un collasso economico, o mantenere aperto tutto il possibile, sacrificando vite umane? Va da sé che non c’è stato un dibattito pubblico sulla questione, e ci mancherebbe”.
Saviano denuncia quindi come “Oggi questa realtà è venuta fuori in tutta la sua gravità, restituendo l’immagine di un territorio nel quale le classi dirigenti hanno deciso a tavolino di “non fermarsi“, probabilmente mettendo in conto l’ecatombe, magari puntando sulla sorte.
Quanto sta emergendo sui ritardi nel disporre la zona rossa nei comuni di Alzano e Nembro, nella Bergamasca, e sui ricoveri nelle residenze sanitarie in cui si prestano cure agli anziani (RSA) sono questioni sconvolgenti, che non possono non essere messe in connessione con un tasso di letalità del virus che, in quelle zone, è altissima e miete centinaia di vittime ogni giorno. Da molte parti si sta invocando, proprio a causa della crisi lombarda, un passaggio della gestione sanitaria dalle regioni al governo centrale.”
Il caso lombardo viene inoltre analizzato mettendolo a paragone con le strategie messe in atto dal confinante Veneto: “Per quello che ora sappiamo, tra Lombardia e Veneto (entrambe governate dalla Lega) esiste una differenza di approccio all’epidemia che è quantificabile nel numero di persone che hanno perso la vita – 10mila in Lombardia vs meno di 1.000 in Veneto – a fronte di un numero di tamponi eseguiti pressappoco identico (quasi 170mila).
Il Veneto, a differenza della Lombardia, ha puntato molto sul tracciamento degli asintomatici per individuare ogni focolaio, per poi agire con prontezza sigillando i territori per impedire l’espansione del contagio. A differenza della Lombardia – dove il virus (come in molte altre parti del mondo, ma non con una tale intensità) ha visto crescere il contagio anche a causa della impreparazione al fenomeno dei piccoli ospedali sul territorio – il Veneto ha provato a ridurre l’ospedalizzazione dei malati (salve, ovviamente, le ipotesi gravi), privilegiando l’assistenza domiciliare.”
In chiusura d’articolo: “I vertici della Regione Lombardia hanno sbagliato ad aver assecondato Confindustria lombarda, il cui presidente, Marco Bonometti in un’intervista ha difeso la scelta di non aver chiuso fabbriche dicendo: “Però ora non farei il processo alle intenzioni, bisogna salvare il salvabile, altrimenti saremo morti prima e saremo morti dopo”. Argomento da industriale, senz’altro; ma la Politica, quella con la P maiuscola, è altro e certo non possono farla gli industriali. […] Riscoprire ora che una politica che decide solo seguendo l’odore del denaro è una politica che genera morte e non ricchezza. E che dice a chiare lettere: «l’Europa non esiste più e oggi è un nuovo 1945». Io spero che gli uomini di buona volontà non lo permetteranno.”
Non tacciateci di ingenuità: sappiamo quanto mantenere viva l’economia di un paese sia fondamentale per evitare a cascata problemi di enorme portata. Ma il valore di questa frase cambia a seconda del significato che attribuiamo a “mantenere viva l’economia”: salvaguardare posti di lavoro? È questo ciò che si stava cercando di fare quando si è messa in pericolo la vita delle persone, ignorando le norme sanitarie e di sicurezza all’interno di una crisi?
Inoltre. Non è forse parte dell’economia anche tutto il tessuto sociale di servizi e garanzie che, esulando dal sistema produttivo ci permettono di vivere in uno stato democratico, libero e solidale?
Per uscire dalla crisi sarà necessaria la responsabilità. E non una vaga accezione di responsabilità civile, che scarica sulle cittadine e i cittadini le colpe di “essere troppo in giro”, quando i dati ci confermano ogni giorno che non è cosi. Una responsabilità che è tutta politica: il primo passo, quella di assumersela. Il secondo, quello di fare delle scelte responsabili.
Vogliamo quindi invitarvi a riflettere sulla distinzione tra responsabilità civile e responsabilità politica. Sono due nozioni ben distinte, che aiutano a capire perché ci incazziamo contro le persone che fuggono dal nord al sud, e perché invece abbiamo bisogno di appelli come quelli di Saviano per capire che è in come organizziamo e gestiamo un intero settore fondamentale alla nostra vita sociale che risiede il problema.
Chi sono i cittadini su cui viene scaricata la responsabilità della crisi?
3. “There is no such thing as a society”
Il cittadino è un singolo dotato di diritti. La sua libertà è un bene da essere difeso a tutti i costi: non siamo disposti a mettere in dubbio le nostre libertà individuali, e non ci sogneremmo mai di aderire alle spinte autoritarie che si stanno risvegliando in tutto il mondo.
Questo singolo tuttavia si muove all’interno di uno spazio con delle limitazioni: queste limitazioni sono dovute all’esistenza di un tessuto sociale, sono determinate dall’esistenza delle altre persone. E questo tessuto sociale, va da sè, è più fragile che mai: siamo più che disposti, a fronte di un sistema sanitario pubblico al collasso, a rinunciare alle nostre libertà di muoverci, almeno per un periodo di tempo.
Mentre ci avviciniamo alla cosiddetta Fase 2, non ci resta che chiederci. Che cosa significa essere liberi? Che tipo di libertà stiamo cercando?
Esistono culture che sul concetto di libertà investono una visione distorta del loro spazio di possibilità.
Ci sono soggetti che, al servizio di un’ideologia che maschera fin troppo bene i suoi tratti distopici, arriva a leggere la decisione di imporre un lockdown come una violazione delle libertà personali, che sono più importanti del diritto alla salute condiviso. Ecco forse, il nucleo del dibattito sul quale sarà necessario immaginare il mondo che verrà.
Un cittadino libero non è il cittadino che può non evitare di prendere in considerazione il contesto in cui è inserito.
La mia libertà di produrre, profittare e crescere non può essere giustificata dalla messa a rischio della salute di chi lavora. Eppure, dai braccianti di Rosarno fino all’eccellente Lombardia, la disuguaglianza di distribuzione di diritti, regolarità e responsabilità risulta più che mai evidente.
Quando parliamo di limiti non stiamo implicando un sistema che sorvegli i suoi cittadini, ma la condivisione della consapevolezza degli effetti delle proprie azioni. Noi in quanto soggetti siamo liberi fino a che non andiamo a ledere la libertà altrui. Perché non possiamo immaginare, al di là di scelte autoritarie e libertà distribuite inegualmente, un mondo intermedio? Un mondo fatto di garanzie, di corpi sociali che istituiscano una distribuzione più equa di risorse e lavoro. Un mondo pubblico e comune.
Vogliamo infatti ripartire dalle considerazioni di Luciano Floridi sull’Esternalità. È finito il tempo in cui potevamo evitare di chiederci chi pagherà per le conseguenze delle nostre azioni. Se ci incazziamo con la gente che scappa dal nord al sud è perché li riteniamo responsabili dei contagi. Ma perché ci è così semplice incolpare dei singoli cittadini, i quali potevano o meno avere diritto di non conoscere le conseguenze delle loro azioni, ma ci è così difficile richiedere un’assunzione di responsabilità da parte dei decisori politici e dei dirigenti aziendali? Se giustifichiamo una grande disparità di salari è normalmente in virtù della diversa distribuzione della responsabilità. Che ne è di questa responsabilità?
4. Liberi o Immuni?
Mentre infatti permettiamo che alcuni si prendano delle libertà sugli altri, rischiamo di mettere in discussione delle libertà troppo spesso svalutate.Come quella di non essere controllati, o di avere una garanzia di sicurezza rispetto ai propri dati sensibili.
Come anticipato nella seconda rassegna anche in Italia si sta cercando, sull’esempio di Corea del sud, Singapore e Taiwan, di sviluppare un’applicazione finalizzata al monitoraggio e al tracciamento dei contatti, vòlta a contenere il numero dei contagi.
Al di là delle tempistiche e delle premesse culturali con le quali questo strumento è stato messo in atto nei casi sopracitati (potete trovare un’introduzione al dibattito nella rassegna appena citata), vorremmo innanzitutto cercare di riassumere i contenuti dell’Ordinanza n. 10/2020, con la quale il Commissario straordinario per l’emergenza Covid-19 Domenico Arcuri ha affidato la gestione della situazione al progetto Immuni.
Il procedimento per l’appalto del servizio di sviluppo del software a titolo gratuito è stato avviato con una “fast call for contribution” indetta il 23 e chiusa il 26 marzo scorsi dal Ministero per lo sviluppo economico, il Ministero della salute e il Ministero per l’innovazione tecnologica e la digitalizzazione. La call era aperta “a privati, società ed enti e diretta a individuare le migliori soluzioni digitali e tecnologiche disponibili per il monitoraggio “attivo” del rischio di contagio”.
La risposta è stata di 504 proposte relative alla prima richiesta di attivazione: teleassistenza medica per i pazienti ricoverati nelle proprie case o in strutture non attrezzate. Per il monitoraggio e il contact tracing hanno invece inviato proposte 319 realtà.
L’applicazione Immuni è stata presentata da Bending Spoons S.p.a., società specializzata nello sviluppo di applicazioni mobile videoludiche, nominata dal “Gruppo di lavoro data-driven per l’emergenza covid-19”, nominato a sua volta dal Ministro per l’innovazione tecnologica e la digitalizzazione il 31 marzo 2020.
Come si legge nell’ordinanza, Bending Spoons “ha manifestato la volontà di concedere in licenza d’uso aperta, gratuita e perpetua […] alla Presidenza del Consiglio dei ministri, il codice sorgente e tutte le componenti applicative”, in quanto offrirà il suo servizio per “spirito di solidarietà” e dunque “al solo scopo di fornire un proprio contributo volontario e personale, utile a fronteggiare l’emergenza da Covid-19”. Tuttavia, come descrive efficacemente Raffaele Angius su Wired: “Nonostante non siano state divulgate le caratteristiche tecniche del servizio di trattamento, l’infrastruttura per il tracciamento si baserà sulla tecnologia Bluetooth, che permette a un dispositivo di conoscere quelli vicini con cui è entrato in contatto all’interno del suo campo d’azione e di tenerne traccia in una lista che rimane salvata sul medesimo. Solo nel caso in cui un cittadino dovesse risultare positivo ai test, le informazioni raccolte dall’app verranno condivise con il personale sanitario in modo da diramare una comunicazione a chi è stato esposto al contagio. A quanto si apprende, l’app non dovrebbe integrare alcun meccanismo di tracciamento della posizione (tecnologia gps), così come indicato dal Garante europeo per la privacy e dal Consiglio che riunisce i garanti dei paesi membri (Edpb).
Il ministro Pisano ha ricordato che l’uso della app sarà volontario. Perché sia efficace, però, sia il garante della privacy italiano, Antonello Soro, sia lo stesso ministro per l’Innovazione, hanno osservato che è necessario che sia scaricata da almeno il 60% della popolazione.”
Tra le principali ragioni per le quali è stata scelta Bending Spoons, riportate anche nell’articolo condiviso da Agenda digitale, vi è la conformità del progetto con il modello europeo delineato dal Consorzio PEPP-PT (Pan-European Privacy-Preserving Proximity Tracing), che sconsiglia ad esempio l’uso – considerato troppo invasivo – del tracciamento basato su GPS, per i rischi legati alla privacy che questo potrebbe comportare.
Ma, come mettono sempre in luce Riccardo Berti e Simone Zanetti su Agenda Digitale, “non va dimenticato che il progetto PEPP-PT non è un progetto istituzionale ma nasce dal raggruppamento di vari soggetti privati, sebbene la Commissione lo abbia esplicitamente menzionato tra le iniziative europee di interesse nelle proprie linee guida.”
Ci piacerebbe però ora considerare, come fa Salvatore Iaconesi su CheFare, l’applicazione non in quanto tale ma in quanto dispositivo volto alla soluzione dei problemi, problemi che sono a loro volta non tanto incarnati dal virus, che li ha solo esposti alla luce, ma che sono problemi sistemici, legati a “l’accesso alla sanità, al benessere, alla ricchezza, alle opportunità.” Immuni non può essere considerata la soluzione a questi problemi, quando, se mai, si basa su una serie di imprecisioni e approssimazioni di valutazione che dovrebbe invece cercare di compensare.
Il controllo che cerca di esercitare un’applicazione come questa rischia di mettere in moto un sistema di sorveglianza che stimolerebbe reazioni di militarizzazione, diligenza e impotenza in cittadine e cittadini, piuttosto che cercare di stimolare solidarietà, collaborazione, attivismo e consapevolezza.
La libertà è il diritto più prezioso che abbiamo. Per questo dobbiamo renderle giustizia, e non confonderla con la libertà dei pochi di sopraffare e sfruttare i molti. La libertà è l’esito di una lotta, e non possiamo permetterci di smettere di difenderla. Solo se sapremo individuare dove risiedono veramente le responsabilità e le priorità della crisi potremo davvero dirci libere e liberi.
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